T’assestavi chèto nella tua cameretta,
nel nobil castello del paese oramai celebre
racchiuso nelle tue memorie tenebre,
per raggiungere più d’ogni altro la vetta.
Di codesto periodo ne sei la vedetta,
il personaggio più illustre e celebre,
col tuo modo di veder la vita tenebre,
con in man la penna e la rimetta.
Ma, ahimé, nessuno ti presta attenzione,
ché tutti, a te, ignorar il tuo gran dolore,
e noi, oggi, ragioniam del genio incompreso.
Quindi la tua virtù non fu mai in ascensione,
poscia il lume delle lettere pensar al tricolore*1,
ma più in là*2 de le tue opere la mente t’ha
reso*3!
*1 il lume delle lettere pensar
al tricolore: l’ingegno degli scritti del Romanticismo
sono più che altro ispirati ad un obiettivo, cioè
quello dell’Unità d’Italia. 1 il lume delle
lettere pensar al tricolore: l’ingegno degli scritti del
Romanticismo sono più che altro ispirati ad un obiettivo,
cioè quello dell’Unità d’Italia.
*2 più in là:
nel Decadentismo (fine Ottocento, inizi Novecento).
*3 la mente t’ha reso:
la memoria delle persone che hanno vissuto in quel periodo (Decadentismo)
ha consolidato Giacomo Leopardi quale grande poeta e prezioso
maestro di vita che nel Romanticismo non ha potuto ricevere.
Il pianto di Pentesilea
Questa cantica è un
discorso che Pentesilea, ultima regina delle amazzoni, rivolge
al suo assassino Achille, dopo averla colpita a morte in battaglia.
Racconta in estrema sintesi la sua vita e quello che avrebbe voluto
fare e a cui purtroppo ha dovuto rinunciare per mezzo della sua
discendenza e della natura del suo gruppo, quale popolo di guerriere.
Il primo verso è un’interruzione
sull’azione violenta che Achille compie verso Pentesilea,
mentre il secondo è la risposta che il Pelide concede alla
regina morente. Gli altri versi sono la manifestazione pacata
di una donna morente tra le sue braccia.
“Taci! Voglio raccontarti una storia!”
“Bene! Or son muto. Racconta tutto.”
“È una favola senz’avania*1 né gloria.
In questa canzone a me cara mi butto,
ché la mia vita a conclusion è giunta
d’esta fanciulla da femmina a putto*2.
Tanto breve fu! Ma sarà ben riassunta,
la cosa ch’or voglio, invero*3 è la parola
ché tra un più e un meno sarò defunta.
Camminavo libera a piè nudi tra l’aiuola,
nel mezzo d’un bel dì di luce e giravo;
lo vento girar me facea come una bambola,
col sorriso lucente, vestita lattea cantavo:
v’era un ruscel silente coll’acqua nitida,
e io, bimba, in quel corso me rischiaravo,
la mia immagine riflessa felice non grida,
l’occhi bruni, le labbra rosa e tanto carina,
l’amor sorse e me lavai ’l capo come Mida.
Sul più bello anco a me giunse la strina*4,
mamma Otrera mi colpì co’ due sberle,
ché la mia discendenza mai sia incrina.
I fiori, l’erba e ’l sole mai potevo vederle,
ché ’l sol concetto mio fu la cruda guerra,
e l’amor, l’affetto, le coccole mai averle,
fino a l’effimera sentenza cruda de la terra,
arrivai sui venti e zac…via ’l seno destro,
indi non poteo mai e mai compiere l’aberra*5,
e niente ne la contesa mi fu cosa d’estro*6,
ché tenni ’n man l’arco, l’ascia e ’l
pelta;
co’ questi, per tutti i dì, fu ’l mio addestro*7.
Poscia anco triste ché da ’l fato fui prescelta
a cagionar pel caso la morte di mia sorella,
cos’anco ’sta grama vita (e l’altra) fu divelta!
F’una battuta di caccia, io fui su ’n sella;
ahi nefasta fu quella dannata picca ch’usai,
e non fu ’l cui uso una semplice novella.
Accidente fu quel momento che captai,
tra l’arbusti, intrepida, si velava Ippolita,
lanciai l’offesa e la sua fine cagionai!
Maledizioni, e rabbia e odio fui assalita,
così diedi l’addio a la mia dolce patria,
e da Priamo, signor d’Ilion, fui accolita.
Me purificò e me rimandò ne la fratrìa*8,
e io verso quell’omo fui piena di miro
che ha fatto di me un’alma cotanto pia.
E così son qui a esalar l’ultimo respiro.”
*1 sopruso
*2 bambino
*3 veramente
*4 bruciare le penne di un uccello (in senso figurativo, in altre
parole Otrera distrusse i sogni di Pentesilea)
*5 allontanarsi dalla via rispetto ad una norma che stabilisce
un determinato comportamento che fa capo ad una tribù,
in questo caso del popolo delle Amazzoni.
*6 stimolo, incoraggiamento
*7 allenamento
*8 tribù
Quella finestra di Eboli
Questa poesia è un
sonetto alla memoria di Isabella Marcangioni, una donna che abitava
ad Eboli nel XV secolo, appartenete ad una delle più losche
famiglie nobili del paese. Perdutamente innamorata di un giovane
imparentato con una famiglia nobile a loro avversa, i fratelli
della ragazza la murarono viva nella sua stanza ove morì
di stenti e di dolore per uno sfogo d’amore mai realizzato.
Il sonetto è una dedica a questa ragazza la cui unica colpa
è quello di essersi innamorata.
Sedevi penante là presso quel cereo riflesso,
ché pensavi immenso al tuo immenso amore,
e lì, incamerata, vagivi lacrime e dolore;
e imperituri creavi quel calor dell’amplesso,
qual’empia gioia che ‘l fato non t’ha concesso,
ed eccoti qui, col mal che ti pressa il cuore
mentre la tua gioventù sfiorisce e muore,
e più del ben che saggiasti, vinse ‘l decesso.
Ahi quanto dovea esser bello quel caro sogno;
quei balenii di beltà che brillan in quella coppia,
ma d’este dolci idee resta fervida inventiva.
E così siam qui, per capir il tuo gran bisogno
d’un affetto mai nato e di un cuor che scoppia,
e così noi riveriam l’eroina che sarà sempreviva!
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